Ricevo e pubblico volentieri la recensione che il professore e narratore Salvatore Tocco ha dedicato all’ultima raccolta di poesie Terre rare e chicchi di melograno della scrittrice Emilia Ricotti (nella foto sopra).

La raccolta di poesie di Emilia ci pone dinanzi all’interrogativo che si pongono gli uomini di cultura negli ultimi decenni del secolo scorso: qual’è il senso dell’arte e della letteratura nella società di massa, nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Walter Benjamin prima di finire suicida per sfuggire ai nazisti, aveva evidenziato la perdita di aura come effetto della riproduzione di massa. Il museo crea un effetto di straniamento. Theodor W. Adorno, leader indiscussso della scuola di Francoforte, alla fine della guerra sentenziava: “Fare poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie.” Aveva apprezzato Gottfried Benn, Paul Celan, la denuncia dell’ orrore delle guerre. Era il teorico della musica atonale. L’armonia ottocentesca gli sembrava alienare la mente attraverso il coinvolgimento emotivo. Ma è il problema che attenzionava già uno dei maggiori drammaturghi del Novecento, Bertold Brecht. Alla forma drammatica del teatro tradizionale, come della poesia, (coinvolgono lo spettatore e ne esauriscono l’attività, producendo emozioni) egli oppone il teatro epico, ma anche la poesia epica. Compito del poeta epico è rendere il lettore-spettatore attivo, sottoporlo ad argomenti, portarlo a decisioni. Usa cartelli che bloccano il fluire delle storie e sintetizzano la tematica, evitando il puro coinvolgimento emozionale catartico.
Nel Novecento Elioth e Montale teorizzano una poesia scabra ed essenziale, Ungaretti cerca la parola che schiuda il miracolo. La poesia oggi tenta di sfuggire alla censura di Adorno, ma il poeta parla spesso di se stesso, del proprio mondo interiore. Fuori c’è la tragedia, le guerre e i fuggiaschi, chiamati con un eufemismo migranti, i campi di concentramento di milioni di persone indifese, le potenze che hanno solo di mira i beni dei paesi poveri, le terre rare, gli affari di pochi ricchissimi e la trascuratezza verso la fame dei poveri,dei diseredati. Ma come si può fare poesia sopra le nuove mire espansionistiche, predatorie. Sopra il crescere dei nazionalismi isolazionisti e rapaci? Emilia Ricotti ce ne da un esempio. O almeno ci prova. Si può fare poesia attraverso un canto che non crei miti, che non favorisca i sogni, l’intimismo. Questa poesia è, questa sì, scabra ed essenziale. Più severa della beat generetion.
Il libro Terre rare e chicchi di melograno è un atlante dei drammi presenti nel mondo, rappresentato senza mediazione linguistica. Come in un telegiornale ci scorrono davanti centrali operative di guardie costiere che dovrebbero favorire il soccorso in mare di profughi su un gommone, con precisione giornalistica ci comunica ore, giorno e anno, la contabilità dei morti. La poetessa si pone dura a tu per tu di fronte al ministro cinico, spietato. Espone la banalità del linguaggio burocratico di fronte alla banalità del male. La barca che si rovescia, il carico di donne, bambini, uomini riversati in mare come chicchi di melograno. Annaspano nell’acqua disperati, finché il mare non li inghiotte. Come in ogni poesia epica la conclusione è una denuncia nei confronti delle responsabilità del mondo civile, che non vuole vedere i risultati delle proprie azioni, assumere le proprie responsabilità. L’ironia diventa sarcasmo contro i potenti. La parola è secca, non ricercata, da notiziario, ma colpisce come un pugno nello stomaco. Voltiamo pagina dell’atlante. Seguiamo la poetessa che ci guida in una discesa agli inferi: come Virgilio fa con Dante, Emilia ci porta in Congo. Il nuovo imperialismo unisce i governi dei paesi africani, ai pescecani delle potenze vecchie e nuove nello sfruttamento delle miniere, nelle rapine dei minerali preziosi. L’ironia genera un effetto di straniamento, scuote il sarcasmo di fronte allo sfruttamento del lavoro infantile. Una sola similitudine finale evita ogni commozione e fa riflettere. L’atlante ci porta in Galizia, dove la marea nera causata da da una petroliera mal ridotta, distrugge la vita. La poetessa ci concede solo un verso lirico, montaliano: l’orizzonte in fumo. Poi ci martella la testa con l’ossessiva anafora finale, fortemente accentata. E’ l’assoluto dominio della paratassi opportunamente misurata, a rendere ossessiva la rappresentazione delle tragedie: le guerre, i bombardamenti dalla Palestina, all’Iraq, allo Yemen; i profughi, i gommoni carichi di fuggiaschi, gli annegati, Pantelleria, Lampedusa ci fanno attraversare un mare di disumanità. Con la velocità dello sfogliarsi di un atlante. Su tutto regna la pietà, la sua pietà per un’infinita catena di casi, che si estendono e paiono non avere fine. Ridotti i verbi che indicano azione, ci vengono posti innanzi una serie visiva di quadri, noi vediamo in successione le immagini di quelle morti, di quegli sfruttamenti. Raramente ci fa godere di qualche espressione fiorita, una similitudine, una metafora. E’ questa una poesia severa, un’antipoesia. Si percorre l’Italia, si attraversano le isole, si consuma l’animo nel declinare l’elenco delle indifferenze e complicità.

E dove si può concludere il viaggio nel dolore se non in Libia. Nell’oasi di El Gatrun, il più grande campo di concentramento. La denuncia degli accordi Tripoli – Roma, indignano e all’indignazione segue il sarcasmo dell’invettiva finale nella quale si rivolge direttamente al presidente. La poesia abolisce le gerarchie. In ogni poesia, brevi, ma incisive, scorrono i periodi. La paratassi martella, colpisce con la denuncia la disumanità del potere, richiama i potenti. Come osate, dice. Come avete potuto! Voi sapevate! Mi richiama alla memoria, questa poesia, l’espressionismo del più grande poeta futurista, il russo Majakovskij de La guerra è dichiarata: la data iniziale, l’elenco dei paesi in guerra, giornali della sera, l’orrore. E dunque questa poesia ci illumina, ci chiarisce la realtà storica in cui viviamo, non solo ci commuove. Ci strazia. Ci fa dire a ciascuno di noi: sono io innocente?
Salvatore Tocco
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