
Sarà presentato il diciassette settembre a Palermo alle ore diciotto presso il Giardino dei Giusti Via Alloro 90, il libro di Sebastiano Catalano InGrate – Diario di una internata. L’appuntamento con i lettori, oltre che l’autore, vedrà protagonisti, Pino Apprendi che introdurrà il libro; Edoardo Lazzara, Roberta Zottino relatori; Maria Rondelli, Bianca Maria Lopes, letture; Giovanna Cammarata, Maria Pia Giardelli, voci fuori dal campo, Francesco Tramuto, musiche al pianoforte.
Sinossi del libro InGrate – Diario di una internata
Oggi, per indicare gli scritti prodotti dentro gli ospedali psichiatrici o in luoghi di esclusione, viene utilizzato un nuovo linguaggio, che in questi ultimi tempi sta richiamando la sensibilizzazione e l’attenzione della linguistica: “parole alate, la lingua degli écrits bruts (exsi bruit) – sovvertimenti, variazioni e dissonanze”. “Esprimersi attraverso la scrittura, operata al di fuori di ogni forma, creando neologismi, invenzioni linguistiche, incongruenze di significato, utilizzare la sintassi in maniera personale, incongrua, allo scopo di raccontarsi e raccontare, attraverso lo stato d’isolamento, la loro vita e dare voce al bisogno di ribellione”. Gli scritti eseguiti dai ricoverati nel manicomio sono condizionati dallo spazio circoscritto in cui vivono, dove non ci sono spazi di libertà di pensiero e di azione. La documentazione scritta dai ricoverati è una documentazione molto complessa, spesso disordinata e incongrua, si tratta di un prodotto che pone una difficoltà di lettura, comunemente intesa, da non potersi prendere, in seria considerazione e, quindi, rimane, in qualche modo, inammissibile. Storie di dolore, di sofferenza che spesso non hanno niente a che fare con la follia, ma semplicemente permeate di amarezza, solitudine, malinconia. Dentro i manicomi la vita è piatta, tutti i giorni sono uguali, il tempo non esiste, non ci sono eventi o fatti da raccontare. Quello che i ricoverati scrivono, dopo che sono entrati nello spazio “spazio negante”, sono scampoli di memoria della vita precedente. La funzione volitiva ha immortalato il mondo in cui sono vissuti, conservando il patrimonio ideativo sapendo riferire con esattezza le notizie intorno alla loro vita vissuta e alla loro relazione familiare.



A differenza delle storie riportate nelle cartelle cliniche redatte dai medici e della letteratura prodotta dai ricercatori, nel diario, che integralmente si trascrive, vengono raccontate, in prima persona, le vicende della paziente. Si tratta di una scrittura ricca, riportata in settantasei pagine di carta protocollo, utilizzando tutto lo spazio possibile, senza lasciare alcun vuoto. Si tratta di un diario complesso e per certi aspetti inquietante, che ci interroga e ci invita a interpretare l’eloquio narrativo rappresentato dal suo stato d’animo. Si tratta di un eccezionale documento di notevole valore storico, che ci pone una chiave di lettura alquanto complessa, piena di interrogativi che ci inducono a una serie di riflessioni. L’eccezionalità di questo documento-memoriale consiste anche nel fortunoso ritrovamento, a distanza di novant’anni, fatto all’interno di una cartiera e, pertanto, destinato ad essere distrutto. Il diario si articola in tre periodi: Il primo periodo inizia Il 19 luglio del 1934; Il secondo periodo inizia il 30 aprile del 1939; Il terzo periodo inizia il 23 maggio 1939 e finisce il 29 maggio dello stesso anno 1939. È il 19 luglio del 1934. Siamo dunque in piena era fascista. La persona internata ha l’età di 60 anni. Incomincia a raccontare la sua storia fin dal giorno in cui è stata rinchiusa, non sappiamo se con la complicità del marito e della sorella. Certamente si tratta di una persona colta, che sa scrivere bene, riuscendo a comunicare in modo lineare, efficace e ben organizzato. Infatti, lei stessa esordisce scrivendo “Vediamo di cominciare con un certo ordine”. Inizia il racconto, riuscendo a trasmettere con lucidità quanto le è accaduto, rendendo il racconto affascinante e nello stesso tempo inquietante. Ignoriamo quando finisce di scrivere la prima parte del suo diario, ma sappiamo con certezza quando cominciano la seconda e la terza parte. Sono passati cinque anni dalla prima stesura del diario, un periodo abbastanza lungo per restare lucidi e razionali all’interno di un luogo che adatta, modella e plasma non solo i folli, ma anche le persone sane di mente che internate a vario titolo, finiscono col perdere la ragione e i sentimenti. In questi lunghi cinque anni, di mancata redazione del diario, qualcosa è sicuramente cambiato, perché la scrittura perde di efficacia, diventa spesso saltellante e a volte incomprensibile, riflette sensibilmente lo stato dei luoghi: “deliri senza senso, stati inespressi, inesprimibili”. Tuttavia in alcuni tratti riesce a produrre modelli di linguaggio raffinato e sensibile riuscendo a esprimere tanta poesia, facendo una sintesi di quello che racconta. Si sa che l’eloquio dei ricoverati del manicomio non è certamente riconducibile alla lingua parlata correttamente e va sempre analizzato e contestualizzato, sia rispetto al soggetto che al luogo. Nella maggior parte dei casi, si tratta di persone che non hanno più la percezione del tempo, non sanno distinguere le ore della giornata, confondono la mattina con il pomeriggio, la sera con il giorno.

Le persone sane di mente, abituate a vivere il proprio tempo in continuità con le giornate, facilmente trovano questi vuoti di memoria incomprensibili e, pertanto, perdono “fil rouge” il filo del discorso. Quello che dicono i ricoverati del manicomio spesso è incoerente e illogico, pertanto, non è assolutamente possibile annodare i fili, per renderlo chiaro, trattandosi di ammalati di mente, che hanno trovato la negazione e vivono il tempo come uno spazio vuoto. Produrre un discorso vuol dire ricorrere a molte risorse cognitive che hanno a che fare con la memoria, che a sua volta deve permettere di fornire schemi da inserire in quello che si dice e focalizzare la cognizione. Sotto l’aspetto clinico, una paziente disordinata nel pensiero, che ha un’età già avanzata, non è più in grado di produrre campioni di linguaggio ben organizzati, soprattutto quando intervengono problemi di neuro-degenerazione. Di solito emergono problemi sensitivi, morfologici, il cui difetto iniziale non è quello della scelta delle parole, ma di organizzare i concetti che si producono: il vero problema, quindi, consiste nella difficoltà di pianificare un discorso. Il soggetto si trova nell’incapacità di evitare di dire cose non pertinenti, fuori luogo, ripetitive e quindi si mostra incapace di utilizzare un discorso lineare ed efficace. La ridottissima capacità di queste persone di usare un discorso comunicativo con parole adeguate e pertinenti sotto l’aspetto semantico e contestuale, deriva dal loro modo di essere malati mentali; Tuttavia, tratti del suo racconto sono descritti con tanta partecipazione e attenzione al dettaglio e alla puntualizzazione, ma con tanta discontinuità e disordine, da sembrare di essere dinanzi a una umanità smarrita, perduta. L’Autrice del diario racconta le sue pene e i suoi dolori, non racconta mai del desiderio di volere uscire. Mostra di essere quasi rassegnata a restare dentro le mura del manicomio, non avendo mai levato un grido di protesta, come di solito fanno gli internati. Fin dal primo giorno dice alla sorella: “Potevate tenermi a pensione con un po’ di sacrificio vostro e con le lire settecento trenta che avevo quando entrai in Manicomio e che mi dissero di essere depositate; somma che adesso cogli interessi sarà un po’ aumentata”. Si tratta di un diario scritto da una ricoverata dentro il manicomio, che ha conosciuto tante persone, appartenenti alla media e alta borghesia, che scrive raccontando con dovizia di particolari. È certamente una persona colta, intelligente e astuta, quindi, una reclusa “diversa”. Chissà se questo è stato il suo vero castigo. Non lo sapremo mai.