LA VALIGIA GIALLA DI ANTONINO SCHIERA – RECENSIONE DI BIAGIO BALISTRERI.
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Quando ebbi il piacere di presentare, in quel di Villabate, il primo libro di poesie di Antonino Schiera, Percorsi dell’anima, mi soffermai sulla sezione degli ‘Aforismi’, “nella quale l’esigenza di vivere carne e anima nel mondo che ci circonda si fa imperiosa e diviene impegno a un tempo civile e sentimentale”. Occupandomi poi delle altre raccolte, affermai che in esse “gli aforismi sono invece trasferiti direttamente nella poesia, che assume così una particolare pregnanza riflessiva, rendendosi quindi più universale”. Quello di ragionare per aforismi è quindi una caratteristica della scrittura del nostro Autore, e si può affermare che anche nel corpo di questo interessante e simpatico racconto intitolato La Valigia gialla sono disseminati ma riconoscibili diversi aforismi. Ne riporto qualche esempio: “Avvolto nella solitudine dei miei pensieri, sto toccando con mano il sentimento della nostalgia, mi chiudo ogni giorno in me stesso, come un riccio quando percepisce un pericolo”.
“La pausa è il momento di maggiore relax per me, ma anche quello in cui mi rattristo maggiormente, perché penso ai miei cari in Sicilia, alla mia terra, al mio mare”.
“Il mio cordone ombelicale è stato tranciato alla nascita, ma sapere di essere amato da chi mi ha generato mi rinvigorisce”.
“Mi sentivo come una quercia il cui tronco era sempre più aggrovigliato da una pianta d’edera e quindi destinato a morire, se non disinnescando quella fitta matassa sinuosa e mortale nello stesso tempo, alimentata dal dubbio”.
Come si vede, sono frasi che potrebbero molto facilmente essere reinterpretate e riscritte in termini di aforismi. A un certo punto del racconto viene espressamente citato un aforisma di Lord Byron, che però, per una svista non saprei dire a chi dovuta, viene rovesciato: “L’amore è come l’amicizia senza le sue ali”. Svista corretta immediatamente con l’affermazione:

“Eleonora era una mia amica, ma non eravamo dotati delle ali dell’amore, che ci potessero portare lontani da tutti per amarci”. La valigia gialla è un titolo indovinatissimo, perché richiama immediatamente gli emigranti italiani che si muovevano con un bagaglio grosso e pesantissimo e, soprattutto, “senza rotelle”. Li abbiamo visti tutti nelle stazioni sollevare faticosamente e passare questi ingombranti bagagli attraverso i finestrini dei treni a lunga percorrenza che raggiungevano il Nord Italia o il Nord Europa, e poi affrettarsi a salire in carrozza, sperando in un posto a sedere. Tutti noi abbiamo avuto parenti o conoscenti che hanno seguito questa triste trafila e poi sono scomparsi per un lunghissimo periodo di tempo, e molte famiglie sono sopravvissute soltanto grazie a questo sacrificio. Ma il protagonista del racconto in realtà prende il treno nel 1990, dopo la caduta del Muro di Berlino, e lo fa non soltanto in cerca di lavoro, ma soprattutto per sfuggire a una delusione d’amore che lo aveva portato sull’orlo del suicidio. Tuttavia, nella sua permanenza prima in Germania e poi brevemente in Olanda, ha modo di provare sulla propria pelle il senso di straniamento dei migranti, dovuto principalmente ai luoghi sconosciuti, alle lingue incomprensibili, agli odori diversi e in primo luogo alla mancanza del mare.
Così una semplice fuga diviene un’esperienza di identificazione con i migranti di tutti i tempi e fa risuonare le corde della nostalgia, un sentimento profondo, ma sconosciuto a chi passa tutta la vita nei luoghi in cui è nato.
Naturalmente il racconto narra le vicende lavorative ed anche fuggevolmente sentimentali della permanenza del protagonista nei paesi stranieri, ma il vero focus è proprio il viaggio, lo spostamento in terre sconosciute, e soprattutto il viaggio in treno. Questo dato è forse il più autobiografico del racconto, perché Antonino Schiera è una persona letteralmente ammaliata dal treno, fino ad emozionarsi anche soltanto a vederlo passare, o persino a vedere i binari. Il protagonista del racconto prova infatti un profondo piacere a stare seduto vicino ad un finestrino vedendo scorrere al di là le campagne, le città, le diverse stazioni, e “i binari che si intersecano come a formare una ragnatela: ponti stradali e pedonali, sottopassi, rampe e viadotti. Quanta energia concentrata e quanti convogli ferroviari che sferragliano.”
E il mondo è vero soltanto visto attraverso il finestrino del treno o in una stazione ferroviaria.
“Vado spesso nella piccola stazione dei treni per comprare il giornale italiano, La Repubblica o il Corriere della Sera che arrivano però con un giorno di ritardo. Mi rilasso guardando passare i convogli ferroviari seduto in una panchina. Ogni tanto si materializza il desiderio inconscio di salire su uno di quei treni per tornare a casa.” E ancora:

“La campagna tedesca ha un fascino particolare, forse perché è la prima volta che la osservo da un treno.”
Fra passione per il treno, rievocazione dei flussi migratori, sentimenti di solitudine e di nostalgia, curiosità per i mondi estranei e riflessioni anche ottimistiche sulla vita, il protagonista non resiste al desiderio di tornare alla sua terra, ai suoi affetti e al mare, ma questa volta decide di prendere l’aereo.
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