Ricevo e pubblico volentieri l’intervento dell’autrice Emilia Ricotti, alla presentazione di martedì 21 maggio 2019, presso la Sala delle Carrozze di Villa Niscemi a Palermo, della raccolta di poesie Terre rare e chicchi di melograno (LuoghInteriori)
Emilia Ricotti
Terre rare e chicchi di melograno
LuoghInteriori
Presentazione
Per leggere la silloge in questione bisogna sfuggire alla tentazione di aprirla e richiuderla, bella presentazione!
Una via di fuga come incipit, sì perché Terre rare e chicchi di melograno mette possiamo dire il dito non sulla piaga, ma sulle piaghe ed in una società che per vivere ha spesso imparato a voltarsi dall’altra parte, non è facile, non è proprio facile ed io non so quale ardore mi abbia procurato leggere e scrivere di così gravi e profonde piaghe.

Certo non ci sono i divieti dei gulag russi, o altre nefandezze analoghe, la stampa, si dice, è libera, ma voltare pagina è possibile lo stesso e la censura è la nostra. Levi, consentitemi la comparazione impari, pubblicato nel 47 da una piccola casa editrice torinese di Francesco De Silva, visto sfavorevolmente da Natalia Ginzburg consulente della Einaudi e da Cesare Pavese, fu rifiutato dalla prestigiosa casa editrice, solo nel 58 verrà pubblicato da Einaudi, forse troppo recenti i crimini che raccontava e la gente non era propensa a fissarvi lo sguardo.
L’opera di Levi io penso abbia contribuito in maniera cospicua a fare nascere una coscienza, che considerando lo scempio di ieri, ammonisce per il futuro e il giorno della memoria e ogni altra testimonianza, che ci porta a scrutare il proliferare dell’orrore dell’uomo sull’uomo e che contribuisce ad evitarne la reiterazione, è benvenuta.
Manzoni racconta la guerra di successione di Mantova e del Monferrato e la peste, non per spaventarci, ma per mostrarci lo strazio di queste scelte sugli ultimi.
L’elenco di questa letteratura, che io considero salvifica, è lunghissimo e superfluo insistervi, perché oggi è facile vedere e non guardare, sentire e non ascoltare, e come un medico cosciente ha bisogno di guardare e di ascoltare, così io ho scritto Terre rare e chicchi di melograno con lo sguardo non metaforicamente rivolto agli ultimi, come chi ha bisogno di voti e strombazza, ma con lo sguardo rivolto alle piaghe degli ultimi e so che questa scelta mi sottrae lettori.
Vedete io non credo in una poesia che intrattiene e come recentemente ha detto Christos Ikonomou durante dei corsi di scrittura creativa, gli aspiranti scrittori sono chiusi completamente su se stessi, vivono dentro una bolla privi dell’ambizione di essere letti altrove, avvitati su se stessi, e lui dice spacchiamola questa bolla!
Ebbene io ho l’ambizione di essere letta altrove, dove però non è facile giungere, i miei non sono noir che alla scoperta dell’assassino di turno ti inquietano, ma torni sicuro alla tua vita di sempre, i miei versi ti caricano di una tensione che è responsabilità di fare, di dire, di essere, di sentire , di guardare e se presi alla lettera ti complicano la vita e in una società che cerca ogni antitesi allo stress, è stress bello e buono, ma io dico, è coscienza di cui riappropriarsi, è passare dall’inerzia di lasciarsi vivere a quella di vivere, è un prezzo che bisogna pagare per vivere, non ci sono da leggere, da rintracciare messaggi di parte, ma la ricerca di un unico messaggio che auspica la rinascita di un nuovo umanesimo, con un’unica domanda, se ci fossi io dall’altra parte?
Vittorio Gassman, leggendo Dante, affermava che la poesia non va spiegata, ma ognuno, si sa, dice ciò che pensa ed io credo che ricercarne la genesi, aiuti a comprenderla.
Dal Mediterraneo, al Congo, a Savar in India, il mio è un giro del mondo apparentemente

sconnesso, ma in realtà intrinsecamente connesso, poesia epica, per raccontare il mio giro del mondo da nord a sud, da est, ad ovest, ed a Savar c’è una fabbrica che implode ed è il Rana Plaz, i bambini in Congo dodici ore nel buio, con i piedi nell’acqua a scavare ed a sera con la pala in spalla, “i bambini puoi pagarli di meno e caricarli di più,” è un giro del mondo privo di paesaggi ameni, ma ti sfilano sotto gli occhi coste, pesci, uccelli, inceneriti dal greggio vomitato dalla Prestige o si ode il tonfo della miniera di San Josè, trenta tre in trappola, e per entrambi i disastri sentenze shock : tutti assolti, nessun colpevole!
O ancora si stagliano paesaggi spettrali e uomini in tuta per setacciare uno stagno, non colmo di rane, ma di appestati di iodio e di cesio del terzo millennio e per evocare la Shoah una squadra ed un righello in mano agli ingegneri di genti per la soluzione finale.
Da Dakar a Tenerife ci giunge un pianto lungo di donne, sono le madri di Thiaroye sur mer che fanno resistenza all’esilio dei figli in Europa.
Ed ancora da Locarno, a Lampedusa, a Pantelleria c’è un denominatore comune un’umanità in tour, ma è un tour forzato, dove anche un’isola amena acquista i contorni di un lager :
“La collina è un lager, ,….
Il filo spinato è il mare”
Pantelleria dove:
“quando s’alza il vento
pista tagliente
più della lava “
O Borgo Mezzanone
“dignità e gara d’appalto al ribasso,
fatturato al galoppo,
anche di domenica
zaino in spalla, schiena sui pedali,
la luce accesa alle quattro del mattino
e una scritta” Benvenuti.”
Ma i luoghi dello sfruttamento proliferano dall’Europa, all’Asia, all’Africa, all’America, e tornando all’Italia c’è Sesto Fiorentino un’officina dismessa “e in fuga da un rogo sono cento, un po’ più , un po’ meno chissà! “
E se sposti il tuo tour più a sud Incontri Timothy dalla Nigeria alla Libia seduto su un materasso lercio sa che qui l’inferno è più inferno.
Raccontare le migrazioni e lo sfruttamento globale vuol dire acquisire la coscienza di guardare alla crisi dell’Europa, che è crisi globale e che esige analisi e strategie globali.
Sappiamo che ciò che contraddistingue l’Europa è la convivenza in uno spazio relativamente ridotto di culture, lingue, tradizioni, allora chiedersi quale intellettuale allora dovrà partorire l’Europa, rendere compatibile la diversità culturale, in Europa e nel mondo è come dice Javier Cercas realizzare l’unione politica: “pluribus unum”, “dai molti uno”,
Dalle nostre pseudo sicurezze abbiamo il dovere di guardare ai più disagiati del mondo, occorre acquisire il globalismo della coscienza.
Civiltà è cancellare dalla faccia della terra la guerra come soluzione dei conflitti.
Utopia?
E’ questa l’utopia di un nuovo umanesimo e per suffragare una tale teorema, mi avvalgo del testamento spirituale di Albert Einstein “Manifesto Einstein-Russell” del 55, ci chiede un nuovo pensiero, fatto di nuovi passi da muovere, non per dare la vittoria ad un gruppo, ma per impedire un disastro,
Hiroshima è lontana, chiudete gli occhi e immaginate Londra, Mosca e New York distrutte da una bomba all’idrogeno!
Questo è terrorismo?
Terrorismo è non dirlo e raccontarci fandonie, c’è la nostra vita di mezzo!
Dei figli!
e dei figli dei figli!
Uno tsunami nucleare!
Sì, perché anche se Il mondo si rialza nei secoli, non si riprende la terra e la distruzione dilaga su un territorio più vasto, come hanno visto a Bikini. Lo sapete già nel cinquantacinque si poteva costruire una bomba più potente di molto.
Venti volte cento e cinquanta volte dieci più potente di quella di Hiroshima! Immaginate oggi nel duemila e quattordici!
Una bomba se esplode, invia particelle nell’aria che a poco a poco si abbassano sotto forma di pioggia, ma di pioggia mortale, perché radioattive.
Con bombe all’idrogeno, c’è la fine della razza umana di mezzo, morte, immediata per pochi e lenta per i più.
Ma ditemi: dobbiamo cancellare la razza umana oppure rinunciare alla guerra.
Non si costruisce sulla distruzione degli altri!
E non è moralismo, da niente.
L’evoluzione raggiunta senza saggezza azzera ogni progresso. L’uomo dovrà rinunciare alla guerra, se non vuole rottamare se stesso, il mondo e l’intera umanità.
Limitare la sovranità nazionale, umanità non è un termine vago, ma l’uomo ci sta dentro coi figli, coi figli dei figli e coi padri dei padri.
Gravità e resistenza, solo due forze, da vincere per librarsi nell’aria e cancellare la speranza da folli che le guerre continuino e basta vietare le armi moderne.
La guerra è la guerra e gli accordi di pace si dissolvono in tempo di guerra. Resta la tentazione terribile di una bella bomba all’idrogeno per accaparrarsi la vittoria finale.
Vittoria mortale!
Molti obiettano: non si cambia il mondo con i sogni!
Io rispondo: Non si cambia coi crimini!

Non si vive con la paura che torni Pearl Harbour o le torri gemelle, e se si attacca è così, se si fa un passo indietro la tensione si scioglie, le questioni da un capo all’altro del mondo: comunista o anticomunista, europeo, asiatico, americano, bianco o nero, si placano.
Non risolve la guerra! E bisogna capirlo ad oriente e occidente!
E’ il progresso che vince, quando è conoscenza e saggezza.
E’ questa l’utopia di un nuovo umanesimo e il ruolo della donna e dei giovani deve essere centrale.
Ci aiutano Albert Einstein, il Mahatma Gandhi, Nelson Mandela e tutti quelli che hanno saputo pensare alla pace.
Auspico un movimento analogo a quello che dalla metà degli anni sessanta alla metà degli anni settanta condusse alla conclusione della guerra in Vietnam, fu un movimento pacifista di portata mai vista negli Stati Uniti e il cui slogan era lavoro e giustizia, rivolto contro i programmi che favorivano la spesa bellica a danno di quella sociale, oggi auspico il radicarsi di tale orientamento insieme alla tutela del pianeta, e come Martin Luther King ha sognato e realizzato l’integrazione dei neri, così io anelo a un mondo che bandisca la guerra dalla faccia della terra.
Ripudiando questa sorta di pietrificazione del presente che genera una visione falsificata della realtà e chiudo con i versi di Lucio Dalla in Piazza grande.
“e se il mondo non ha sogni io li ho, e te li do.”
Emilia Ricotti
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